Sono state un elemento imprescindibile della narrativa pop almeno fino all'inizio del millennio, per poi sparire progressivamente. Un po' per l'oggettiva qualità dell'industria discografica (in caduta libera), un po' per una sorta di omogeneità della musica da classifica, scioltasi in pochi rivoli meticci e costruiti in serie di rhythm and blues dietetico, t-rap, latino. Insomma: una specie in via di estinzione destinata a subire il colpo di grazia dalla sopraggiungente IA.
Eppure le classifiche, e con esse le nostre vite, sono state costellate di 'One Hit Wonder', canzoni che hanno marchiato estati o precisi momenti storici senza che il loro esecutore riuscisse a ripetersi. Un 'hic et nunc' armonico da consegnare ai posteri. 'Tormentoni' li si chiamava, figli dell'imprevedibilità e del talento: da 'Spirit in the Sky' di Norman Greenbaum a 'My Sharona' dei Knack; da 'What's Up' delle 4 Non Blondes a 'Maracaibo' di Lu Colombo passando per New Radicals, Nena, Babylon Zoo, Black, Scott McKenzie, Ke, Chumbawamba, Vanilla Ice, Kim Carnes, Bran Van 3000 e mille altri. Come gli Eight Wonder, che a differenza del nome ebbero solo una hit (e mezza, visto che il secondo successo fu opera dei Pet Shop Boys). O, infine, quella 'Don't Worry Be Happy' di Bobby McFerrin che rimane caso emblematico avendo vinto addirittura tre Grammy nel 1988, in un afflato di positività hippy.
Canzoni così radicate nell'immaginario da aver sovente fagocitato l'interprete, rendendolo mera merca per spot pubblicitari (chi ricorda la Vodafone con i Dandy Warhols?) incapace (o non desideroso, si prenda ad esempio Scott Walker) di replicare cotanto senno e condannandolo all'oblio. Gente che si è persa, spesso volutamente, sulla sommità delle classifiche per non ritrovarsi più. Il pop ne è pieno, e anzi - verrebbe da aggiungere - si è forgiato proprio su queste pietre d'angolo di memoria. Meteore le si è soliti appellare con una punta di ironico snobismo, ma come queste destinate a lasciare una fiammata a seguirne la scia, segnando parte della nostra esistenza.
Vi è stato addirittura uno studio della Stanford University a riguardo, qualche anno fa. Prendendo a campione qualcosa come tre milioni di canzoni dal 1959 al 2010 Justin Berg (un ricercatore dell'ateneo) ha estratto dati precisi. E sorprendenti: solo il 3% degli artisti in esame è riuscito a piazzare una hit. Questo spiega la difficoltà nel colpire il bersaglio e - soprattutto - lasciare un segno nell'industria discografica. Perché per ogni Beatles o Michael Jackson con palmarès da decine di numeri uno vi è una lunga coda di - spesso - sconosciuti che ci hanno lasciato in eredità canzoni che ancora canticchiamo, spesso ignorandone nome e genesi.
Questo l'argomento che il Salotto Pop affronterà il 10 maggio; una storia di classifiche e Carneadi lunga mezzo secolo, cercando di ridare senso e vita a interpreti che - a differenza dei loro manufatti - sono stati ingiustamente dimenticati.
"Ma l'impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale" (Lucio Dalla)