Di cosa potrà mai trattare il Salotto Pop a febbraio? Esatto, proprio ‘Lui’.
Il Festival di Sanremo rappresenta una sorta di luccicante anomalia, una "cerimonia pubblica" aggregante come poche. Solo certi eventi sportivi hanno la medesima rilevanza mediatica. E, come questi, il Festival crea gruppo e appartenenza anche a chi ne rifiuta - sdegnato - la fruizione.
Nulla in Italia ha lo stesso impatto popolare, sia in positivo che in negativo: il bisogno di esperienza collettiva, l'identità comunitaria che si sprigiona durante quei giorni (il Fantasanremo è lì a dimostrarlo) è dinamica con rari eguali di condivisione, anche se oggi la musica non è più la grande protagonista (del festival e della società), digerita dallo spettacolo tout court. Altresì curioso come molti appassionati di musiche "alte" ne subiscano il fascino sebbene le proposte artistiche risultino radicalmente diverse dai loro ascolti, e viceversa come la maggior parte degli italiani abbia l'unico rapporto annuale con la musica solo in quei cinque giorni.
Dalla prima edizione è cambiato tutto, sia nella società che nella fruizione basica del pop; il polso della discografia non passa più sopra quel palco, e quello che era partito come una sorta di piano bar durante le cene del Casinò è diventato un Golem tentacolare con qualche brandello di canzone. Oggi non si creano o distruggono più carriere, non si sgomita per tre minuti di esposizione mediatica, non si punta sul formato canzone. Proprio perché è la discografia a essere radicalmente cambiata. Ma l'attrattiva rimane la medesima, tra ironia, curiosità e irriverenza.
L'onda sinusoidale del Festival è un loop temporale che, dal 1951, si ripete con alti (pochi) e bassi (moltissimi). Specchio e interprete di una società in continuo divenire, Sanremo è mutato come è mutata l'Italia, anzi: sovente è accaduto il contrario, osservando le canzoni che hanno attraversato quel palco facendosi traino (anche) sociale. Da "Nel blu dipinto di blu" passando per "Piazza Grande", "La musica è finita", "Vita Spericolata", "Vacanze Romane" o "Per Elisa" la società era solita adeguarsi ai richiami della kermesse.
Senza scomodare Adorno è indubbio come ormai Sanremo sia più di un festival avendo dismesso la sua identità culturale; che abbia volutamente ucciso la sua funzione primaria per trasformarsi in un genere a sé stante, avulso da tutto, persino - paradossalmente - dalla discografia. Discografia che non passa quasi più da quelle parti, se non per la legge dei grandi numeri o in guisa di ospite. Il Festival è la spettacolarizzazione portata agli estremi dello show. Oggi quel palco è un'autorappresentazione dell'effimero, uno spazio economico intriso di marketing che si auto fagocita; una Big Babol alla frutta da appiccicare sotto il banco alla sigla di chiusura. Qualcosa che sopravvive a sé stesso e lo fa rinascendo ogni volta dalle proprie ceneri, tra scandali, personaggi, polemiche e (pochissime) canzoni. Involucro luccicante ove difficilmente si potrà ascoltare un nuovo Umberto Bindi o un nuovo Sergio Endrigo. Ma si deve fare di necessità virtù. O usare il telecomando.
Ecco che allora - stavolta - il Salotto Pop proverà a rimettere le cose nel giusto ordine, setacciando 74 edizioni lungo un "Sanremo Occulto" dalle mille sfaccettature: scandali, capolavori dimenticati o ignorati, risse, agguati, ospiti in gara (da Timi Yuro a Stevie Wonder, da Ben E. King a Dusty Springfield passando per gli Yardbirds), rivoluzioni copernicane, costume, storia, cultura (persino due onorevoli a partecipare in veste di autori), aneddoti e musica. Tanta musica, curiosa e a latere, estrapolata dalle oltre 2500 canzoni che si sono avvicendate. Perché sarà anche l'anagramma di Ramones ma non è scritto da nessuna parte che le due cose non possano coesistere. Proviamoci, consci "che nessuno mi può giudicare". Nemmeno tu.